Matteo, 26,26-30
Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”.
Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Eccoci al cuore più intimo di quella notte in cui tutto si compie. I gesti di Gesù sono semplici e densi: egli prende il pane. Questo “prendere” è l’atto con cui Gesù fa di tutto ciò che c’è e che Lui steso è un “atto”, si decide per qualcosa, trasforma ciò che vive in qualcosa di suo, di nuovo, risponde liberamente, con tutto sé stesso, al procedere degli eventi. E lo fa prima di tutto “benedicendo”: un libertà che si esprime accogliendo con fiducia filiale tutto il bene ricevuto dal Padre, e quindi “spezzando e condividendo”. Quella notte drammatica e solenne è riempita e trasformata dai gesti familiari di Gesù con i suoi discepoli: senza enfasi tutto parla di dono, condivisione, appartenenza, amore. Gesù introduce a questo i suoi discepoli, e lì dentro, assaporando e assimilando quel pane della condivisione e quell’unico calice dell’alleanza nel perdono, i discepoli possono scoprire e partecipare al mistero del suo corpo e del suo sangue, alla sua vita, alla sua offerta. I discepoli divengono a quella tavola non solo destinatari del suo dono, ma coinvolti in quella stessa dinamica di offerta e di amore, che li apre alla speranza di condividere con Lui il vino nuovo nel regno del Padre.