Isaia 63,15-64,3
Guarda dal cielo e osserva
dalla tua dimora santa e gloriosa.
Dove sono il tuo zelo e la tua potenza,
il fremito delle tue viscere
e la tua misericordia?
Non forzarti all’insensibilità,
perché tu sei nostro padre,
poiché Abramo non ci riconosce
e Israele non si ricorda di noi.
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Perché gli empi hanno calpestato il tuo santuario,
i nostri avversari hanno profanato il tuo luogo santo?
Siamo diventati da tempo
gente su cui non comandi più,
su cui il tuo nome non è stato mai invocato.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti,
come il fuoco incendia le stoppie
e fa bollire l’acqua,
perché si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici,
e le genti tremino davanti a te.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito,
occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te,
abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Dopo la grata memoria dei benefici di Dio, eccoci alla supplica vera e propria. Ora la preghiera si lancia verso il Signore, gli dà del tu. C’è bisogno, ancora una volta, di uno sguardo dal cielo perché questa terra desolata ritrovi speranza. L’implorazione intensa, pressante, sembra voler scuotere dal sonno, quasi provocare un Dio incomprensibilmente lontano, silente, apparentemente disinteressato alle misere sorti del popolo. L’orante sa di poter contare su una relazione di amore che non può lasciare indifferente il Signore, che anzi è inscritta nel più profondo delle sue viscere (cfr. 49,14-16!). Sembra tutto saltato; neppure la memoria dei santi padri basta. Il loro esempio non ci parla più, la tradizione mostra tutta la sua inadeguatezza, la sua incapacità a sorreggerci in questo momento, a darci le risposte di cui abbiamo bisogno: “Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi”. Solo il Signore, direttamente, come unico vero padre che non delude, può ora riconoscerci come figli, può di nuovo generarci, può soccorrerci e mostrarci la via. Solo lui può con potenza, dentro questa nostra storia ferita, afferrarci e ricondurci a sé, può non permettere che il nostro cuore si indurisca nella coazione a ripetere del nostro modello falso e iniquo di umanità. Non ci bastano più le memorie dei prodigi del passato: abbiamo bisogno, ora, che il Signore torni, che si impietosisca di noi suo popolo, privati del santuario, impossibilitati a celebrare, a rinnovare la nostra fede e la nostra comunione. Ci rendiamo conto, adesso ancora più chiaramente, di quanto ci siamo allontanati da Dio, “vagando lontano dalle sue vie”, cercando una libertà da Lui che ci ha resi schiavi, divenendo gente senza volto e senza nome. Non c’è più tempo. I prodigi devono rinnovarsi per noi, con la stessa forza degli inizi: “se tu squarciassi i cieli e scendessi!”, oltrepassando tutto ciò che ci divide da Lui, nello stupore del creato, per poterlo riconoscere con tremore e con gioia, come Mosè su Sinai (Es 19,16-19), come Elia sul Carmelo (1Re 18,30-39). Anzi, più che agli inizi: ora, dopo la distruzione del tempio, il Signore non sarà più semplicemente il Dio di Israele, ma il Padre di tutti coloro che, da ogni tradizione e appartenenza, confidano in Lui (cfr. 56,6), che sono diventati suoi servi (v. 17!): è ciò che “mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto” (cfr. 1Cor 2,6-12), ma che infine si è rivelato nei “cieli squarciati” su Gesù battezzato al Giordano (Mc 1,10), nel “velo del tempio squarciato” alla sua morte (Mc 15,38), nel Vangelo annunziato alle genti (Ef 3,1-7).