Isaia 64,4-11
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
Signore, non adirarti fino all’estremo,
non ricordarti per sempre dell’iniquità.
Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo.
Le tue città sante sono un deserto,
un deserto è diventata Sion,
Gerusalemme una desolazione.
Il nostro tempio, santo e magnifico,
dove i nostri padri ti hanno lodato,
è divenuto preda del fuoco;
tutte le nostre cose preziose sono distrutte.
Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore,
tacerai e ci umilierai fino all’estremo?
La supplica giunge ora al suo culmine. La preghiera qui si fa così audace da sfiorare l’oltraggio, con la franchezza di una protesta che anche i salmi tante volte ci testimoniano (p. es. Sal 44!): “tu vai contro (si può intendere così!) quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie”; e ancora: “poiché tu sei adirato noi abbiamo peccato (così letteralmente!)” invertendo di proposito l’ordine teologico del rapporto tra peccato e castigo. Insomma, che senso ha la durezza di questa prova se colpisce i giusti e non fa altro che tirare fuori il peggio di noi, facendoci affondare ancora di più nel gorgo dei nostri peccati e della nostra violenza? Perché sembra che tu, Signore, disprezzi ogni nostro tentativo di camminare nella giustizia, come “panno immondo” (il panno intriso del sangue del mestruo!)? Come è possibile che tu lasci che l’iniquità stravinca, spazzando via quel che resta di noi e di quel poco di buono che abbiamo? Come puoi pretendere che qualcuno ti cerchi, invochi il tuo nome, si affidi al tuo soccorso, se tu ti nascondi, taci, ti sottrai, non ci rispondi, ci abbandoni agli esiti di morte della nostra stessa iniquità? E, d’altra parte, che possiamo fare noi di fronte a te? Non siamo forse ciò che tu stesso vuoi che noi siamo e che ci permetti di essere? Noi ti riconosciamo padre, ma come puoi Tu adirarti e voler distruggere ciò che tu stesso hai plasmato? Come puoi lasciare che non ci sia un limite alla tua ira? Che cosa potrebbe rimanere di noi davanti a Te, se tu non fai che ricordare il nostro peccato? Ecco guarda: siamo qui davanti a te, così come siamo, con i nostri miseri fallimentari tentativi di giustizia, e soprattutto con il carico dei nostri peccati. Eppure siamo tuo popolo, tutti noi. Le “città sante”, dove abita il tuo popolo santo, sono un deserto (non è la descrizione di ciò che vediamo ora fuori dalla finestra?). “Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte”. Sembra non rimanere nulla: solo un popolo impoverito, spogliato, privato dell’eredità dei padri, che si offre allo sguardo di Dio, con la forza di una preghiera che lo provoca ad un’azione di emergenza, appellandosi alla sua pietà, nella consapevolezza che solo Lui può dire una parola e cambiare le sorti. Così si conclude la supplica, con la forza tesa e drammatica di un’ultima affilatissima domanda, che sembra inchiodare Dio alle sue responsabilità: “dopo tutto questo resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai fino all’estremo?”.