Collatio 24-7-2020

Atti 22,30-23,35

Il giorno seguente, volendo conoscere la realtà dei fatti, cioè il motivo per cui veniva accusato dai Giudei, gli fece togliere le catene e ordinò che si riunissero i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio; fece condurre giù Paolo e lo fece comparire davanti a loro.
Con lo sguardo fisso al sinedrio, Paolo disse: «Fratelli, io ho agito fino ad oggi davanti a Dio in piena rettitudine di coscienza».

Ma il sommo sacerdote Anania ordinò ai presenti di percuoterlo sulla bocca. Paolo allora gli disse: «Dio percuoterà te, muro imbiancato! Tu siedi a giudicarmi secondo la Legge e contro la Legge comandi di percuotermi?». E i presenti dissero: «Osi insultare il sommo sacerdote di Dio?». Rispose Paolo: «Non sapevo, fratelli, che fosse il sommo sacerdote; sta scritto infatti: Non insulterai il capo del tuo popolo».
Paolo, sapendo che una parte era di sadducei e una parte di farisei, disse a gran voce nel sinedrio: «Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti». Appena ebbe detto questo, scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei infatti affermano che non c’è risurrezione né angeli né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose. Ci fu allora un grande chiasso e alcuni scribi del partito dei farisei si alzarono in piedi e protestavano dicendo: «Non troviamo nulla di male in quest’uomo. Forse uno spirito o un angelo gli ha parlato». La disputa si accese a tal punto che il comandante, temendo che Paolo venisse linciato da quelli, ordinò alla truppa di scendere, portarlo via e ricondurlo nella fortezza. La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma». Fattosi giorno, i Giudei ordirono un complotto e invocarono su di sé la maledizione, dicendo che non avrebbero né mangiato né bevuto finché non avessero ucciso Paolo. Erano più di quaranta quelli che fecero questa congiura. Essi si presentarono ai capi dei sacerdoti e agli anziani e dissero: «Ci siamo obbligati con giuramento solenne a non mangiare nulla sino a che non avremo ucciso Paolo. Voi dunque, insieme al sinedrio, dite ora al comandante che ve lo conduca giù, con il pretesto di esaminare più attentamente il suo caso; noi intanto ci teniamo pronti a ucciderlo prima che arrivi».
Ma il figlio della sorella di Paolo venne a sapere dell’agguato; si recò alla fortezza, entrò e informò Paolo. Questi allora fece chiamare uno dei centurioni e gli disse: «Conduci questo ragazzo dal comandante, perché ha qualche cosa da riferirgli». Il centurione lo prese e lo condusse dal comandante dicendo: «Il prigioniero Paolo mi ha fatto chiamare e mi ha chiesto di condurre da te questo ragazzo, perché ha da dirti qualche cosa». Il comandante lo prese per mano, lo condusse in disparte e gli chiese: «Che cosa hai da riferirmi?». Rispose: «I Giudei si sono messi d’accordo per chiederti di condurre domani Paolo nel sinedrio, con il pretesto di indagare più accuratamente nei suoi riguardi. Tu però non lasciarti convincere da loro, perché più di quaranta dei loro uomini gli tendono un agguato: hanno invocato su di sé la maledizione, dicendo che non avrebbero né mangiato né bevuto finché non l’avessero ucciso; e ora stanno pronti, aspettando il tuo consenso».
Il comandante allora congedò il ragazzo con questo ordine: «Non dire a nessuno che mi hai dato queste informazioni». Fece poi chiamare due dei centurioni e disse: «Preparate duecento soldati per andare a Cesarèa insieme a settanta cavalieri e duecento lancieri, tre ore dopo il tramonto. Siano pronte anche delle cavalcature e fatevi montare Paolo, perché venga condotto sano e salvo dal governatore Felice». Scrisse una lettera in questi termini: «Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice, salute. Quest’uomo è stato preso dai Giudei e stava per essere ucciso da loro; ma sono intervenuto con i soldati e l’ho liberato, perché ho saputo che è cittadino romano. Desiderando conoscere il motivo per cui lo accusavano, lo condussi nel loro sinedrio. Ho trovato che lo si accusava per questioni relative alla loro Legge, ma non c’erano a suo carico imputazioni meritevoli di morte o di prigionia. Sono stato però informato di un complotto contro quest’uomo e lo mando subito da te, avvertendo gli accusatori di deporre davanti a te quello che hanno contro di lui».
Secondo gli ordini ricevuti, i soldati presero Paolo e lo condussero di notte ad Antipàtride. Il giorno dopo, lasciato ai cavalieri il compito di proseguire con lui, se ne tornarono alla fortezza. I cavalieri, giunti a Cesarèa, consegnarono la lettera al governatore e gli presentarono Paolo. Dopo averla letta, domandò a Paolo di quale provincia fosse e, saputo che era della Cilìcia, disse: «Ti ascolterò quando saranno qui anche i tuoi accusatori». E diede ordine di custodirlo nel pretorio di Erode.

Paolo compare davanti al sinedrio in un drammatico scontro con le autorità religiose di Gerusalemme. Impressiona qui lo “sguardo fisso al sinedrio” di Paolo, con il quale esordisce testimoniando la sua “rettitudine di coscienza” davanti a Dio. Paolo guarda negli occhi i suoi accusatori, consapevole della propria integrità. È la semplice e irriducibile forza di chi sa chi è, a cosa tende, per cosa si sta spendendo: Paolo è pienamente consegnato nelle mani di Dio, e non ha nulla da temere. Non solo: non è neppure disposto ad accettare passivamente l’ingiustizia e la prevaricazione. E anche “porgere l’altra guancia” non è forse proprio questa provocazione inerme di chi mette il violento davanti alla sua responsabilità? Questo non significa che Paolo affermi se stesso: la sua risposta è una denuncia che trova comunque il limite della legge, sotto la quale ancora una volta Paolo umilmente si pone. Ma proprio da questa posizione di obbedienza alla legge Paolo afferma davanti al sinedrio il suo essere fariseo: c’è un modo di essere ebreo che, potremmo dire, è incompatibile con il vangelo (incarnata dai Sadducei, espressione del potere sacerdotale, che riconoscono come Scrittura solo la Torah, dediti ad una interpretazione cultuale e spesso politico-mondana del giudaismo) e un modo più interiore e spirituale, il fariseismo, via moralmente rigorosa, più vicina alla tradizione profetica, che mette al centro l’impegno alla conversione personale e della pratica della giustizia, e animata dalla speranza della risurrezione. È a questa tradizione che Paolo si rivolge e con la quale si identifica, nell’estremo tentativo non di dividere e fare scompiglio, ma di farsi capire: “Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti!”. Ma l’effetto è, appunto, quello di una contrapposizione così violenta tra Sadducei e Farisei che di nuovo il comandante deve intervenire a portare via Paolo. È in quella notte che Paolo riceve la consolazione e l’incoraggiamento del Signore; dice il testo che “gli venne accanto”: è con questo senso di vicinanza e di sostegno cos’ “corporeo” e affettivo che il Signore gli apre l’orizzonte di un nuovo cammino che da Gerusalemme, dove Paolo ha ormai portato fino in fondo la sua testimonianza, lo condurrà a Roma. La congiura che viene poi descritta è solo l’inizio di un percorso che Luca descrive in modo minuzioso ed estenuante: sono le sabbie mobili di un meccanismo del potere (religioso e civile) nei cui ingranaggi Paolo sembra sprofondare. Non è più il tempo in cui lui è il protagonista di un viaggio del vangelo, anche difficile, ma comunque entusiasmante. Ora tutto si rallenta e si complica, in un susseguirsi di rinvii, attese, interrogatori, lunghe prigionie, in balia dei più vari attori istituzionali: capaci o inetti, giusti o corrotti. Qui Paolo è vittima di una congiura di fanatici religiosi dalla quale sfugge solo per l’intervento del giovane nipote che lo avvisa e al quale il capitano dà credito: ha qualcosa di tenero la scena descritta da Luca nella quale il capitano Claudio Lisia lo “prende per mano”, lo conduce in disparte e lo ascolta. La congiura dei quaranta uomini è sventata dall’inerme ragazzo…! E dalla prontezza e sollecitudine del comandante, che invece che disinteressarsi del “caso Paolo”, lasciando che le cose avvengano, si prodiga perché sia protetto e condotto dal governatore Felice e giudicato con giustizia. Ma qui allo zelo del comandante corrisponderà l’inerzia del governatore… Insomma, Paolo ora è semplicemente come un seme gettato, che con la sua vita offerta e il suo corpo consegnato, accetta questa impotenza come luogo di una diversa e misteriosa fecondità. Ha solo l’incoraggiamento del Signore, nel mezzo di questa condizione di sfibrante attesa e continuo rinvio. In queste pagine quasi snervanti e aride che ci conducono verso la fine del libro degli Atti potremmo perdere interesse, raffreddarci davanti all’apparente assenza di eventi significativi o di chissà quali insegnamenti profondi… Paolo è “uno come tanti altri”, innocenti o meno, in attesa di giudizio, schiacciati dal sistema e dalle sue dinamiche… ma è proprio questo il modo con il quale il Signore porta a maturazione e approfondisce il cammino di Paolo e il nostro, nell’esperienza di un ordinario che a volte percepiamo come spossante, e che ci fa certamente sentire impotenti, ma nel quale possiamo imparare a scoprire un spazio più interiore e ampio di libertà, di luce e di senso, in obbedienza umile e fiduciosa al Signore.

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