Isaia 16,6-14
Abbiamo udito l’orgoglio di Moab, il grande orgoglioso,
la sua alterigia, il suo orgoglio, la sua tracotanza,
l’inconsistenza delle sue chiacchiere.
Per questo i Moabiti innalzano un lamento per Moab, si lamentano tutti;
per le focacce di uva di Kir-Carèset gemono tutti costernati.
Sono squallidi i campi di Chesbon, come pure la vigna di Sibma.
Signori di popoli ne hanno spezzato i tralci che raggiungevano Iazer,
penetravano fin nel deserto; i loro rami si estendevano liberamente, arrivavano al mare.
Per questo io piangerò con il pianto di Iazer sulla vigna di Sibma.
Ti inonderò con le mie lacrime, o Chesbon, o Elalè,
perché sui tuoi frutti e sulla tua vendemmia è piombato un grido.
Sono scomparse gioia e allegria dai frutteti;
nelle vigne non si levano più lieti clamori né si grida più allegramente.
Il vino nei tini non lo pigia il pigiatore, il grido di gioia è finito.
Perciò le mie viscere fremono per Moab come una cetra,
il mio intimo freme per Kir-Carèset.
Si vedrà Moab affaticarsi sulle alture e venire nel suo santuario per pregare, ma senza successo.
Questo è il messaggio che pronunciò un tempo il Signore su Moab. Ma ora il Signore dice: «In tre anni, come gli anni di un salariato, sarà svilita la gloria di Moab con tutta la sua numerosa popolazione. Ne rimarrà solo un resto, piccolo e insignificante».
Il lamento su Moab si arricchisce di nuovi particolari e sfumature. La sua rovina ha a che fare, ancora una volta, con un orgoglio, un innalzamento. Per il profeta, al fondo, è sempre questo il peccato che guasta ogni cosa bella: la meraviglia di questa vite rigogliosa, che arriva a toccare il deserto trasformandolo in giardino, è spezzata e distrutta a motivo di questa stolta alterigia con la quale Moab confida in se stesso e nelle sue false divinità, cui offre schiacciate d’uva e rivolge inutili preghiere che sono come vane chiacchiere. Non c’è altro da fare che piangere per tutta questa inutile terribile rovina. Il profeta non rimane distante, a giudicare gli eventi; ne è partecipe in modo così intenso che tutto in lui diventa grido di dolore: lacrime che addirittura “inondano” il paese e viscere che per il fremito della sofferenza si trasformano in strumento di lamento, come una cetra vibrante. Ma la preghiera di Moab è inutile, si affatica invano a piegare il volere della divinità ai propri progetti (cfr. Gc 4,1-3 e Mt 6,7-8), invece che accogliere l’umiliazione e mettersi in ascolto. Alla fine tutto si compirà in breve tempo, e la rovina non lascerà che “un resto, piccolo e insignificante”: sarà quel rimpicciolimento, ancora una volta, l’occasione per abbandonare il peccato, che è sempre orgoglio e innalzamento che conduce alla morte, e imparare una via nuova nell’umiltà e nell’affidamento che conducono alla vita.