Ebrei 3,1-6
Perciò, fratelli santi, voi che siete partecipi di una vocazione celeste, prestate attenzione a Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, il quale è degno di fede per colui che l’ha costituito tale, come lo fu anche Mosè in tutta la sua casa. Ma, in confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di una gloria tanto maggiore quanto l’onore del costruttore della casa supera quello della casa stessa. Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che ha costruito tutto è Dio. In verità Mosè fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore, per dare testimonianza di ciò che doveva essere annunciato più tardi. Cristo, invece, lo fu come figlio, posto sopra la sua casa. E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo.
Bella l’espressione “fratelli santi” per indicare coloro che, per la fede, accolgono Gesù come “colui che santifica”, facendosi nostro fratello, in tutto simile a noi (2,11ss), affinché anche noi condividiamo la sua condizione “celeste”. Per questo rispondere alla vocazione cristiana significa avere Gesù come il centro unificante della nostra attenzione, come orientamento di fondo del movimento della nostra vita: significa accoglierlo come l’inviato degno di fede (l’apostolo), credere al suo vangelo e affidarci a Lui, perché ci conduca alla piena comunione con il Padre. Molto più dello stesso Mosè, che Dio costituì per il suo popolo come il suo fedele portavoce. Quando per invidia sua sorella Maria e suo fratello Aronne osarono mettere in dubbio la sua autorità di intermediario della parola di Dio, il Signore stesso li convocò all’ingresso dalla tenda del convegno e in una colonna di nube disse loro: “Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?” (Nm 12,6-8). Eppure l’autorità di Gesù è ancora maggiore di quella di Mosè:
1. perché non è, come lui, semplicemente “servo”, ma Figlio al quale la casa appartiene;
2. perché non parla di quello che si compirà in futuro, ma di ciò che in Lui già si è realizzato;
3. perché non gli è affidato semplicemente ciò che si svolge “nella” casa, ma “sopra” la casa, nei cieli, meta finale del cammino dei credenti.
Essere dunque la “casa” di Gesù, significa non perdere mai ciò che ci costituisce suoi fratelli “santi”: la libertà filiale e la speranza che ci è stata regalata, anche in mezzo alle prove della vita, quelle che Gesù ha condiviso in tutto, fino alla morte, per noi, nel pieno abbandono fiducioso nella mani di Dio.