Giovanni 7,1-9
Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo.
Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto». Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea.
Dopo il grande discorso di Gesù alla sinagoga di Cafarnao e il suo esito drammatico, il vangelo si sofferma a descrivere il travagliato passaggio di Gesù, di nuovo dalla Galilea a Gerusalemme. Gesù per prima cosa non ha nessuna intenzione di lasciare la Galilea e andare in Giudea. A seguito del conflitto prima a Gerusalemme (cap. 5) e poi perfino in Galilea a Cafarnao (cap. 6), i Giudei sono ben decisi ad uccidere Gesù; e per questo motivo Egli cerca di evitare per il momento lo scontro aperto a Gerusalemme. In occasione però della festa delle Capanne, ormai vicina, i “fratelli” (li avevamo incrociati in compagnia di Lui in 2,12) spingono Gesù a recarsi a Gerusalemme. Le loro argomentazioni fin troppo “umane” stabiliscono per Lui una specie di strategia, dove è chiaro cosa deve fare, quando, come e perché: la festa delle Capanne, caratterizzata da una forte attesa messianica, sarebbe l’occasione perfetta per un rilancio della sua missione, tanto più che molti dei suoi discepoli si erano allontanati dopo il “duro” discorso di Cafarnao. Una sua assenza si sarebbe senz’altro notata in una occasione così importante come la festa, mentre una sua aperta manifestazione, accompagnata da opere prodigiose, avrebbe raccolto un consenso tale da prevalere sulle resistenze e avversioni dei Giudei, o almeno gli avrebbe permesso di “recuperare terreno” presso i discepoli increduli. L’ultima frase è forse la più esplicita ed emblematica: “manifesta te stesso al mondo!”. È proprio qui che l’evangelista stesso commenta: “neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui”. Quella logica di una manifestazione “al mondo” (cfr. invece più avanti 14,22!) che riproduce gli schemi “del mondo”, del successo e della realizzazione dei propri progetti è esattamente la logica dell’incredulità! Poco importa se non si esprime con un progetto di morte, ma con un “progetto di successo mondano”. Si tratta sempre di una contraddizione della missione filiale di Gesù, seppure più sottile ed insidiosa: una specie di “mondanizzazione” della sua missione, ben più pericolosa della aperta contrapposizione a Lui! Ma Gesù non si fa “fare l’agenda” dai suoi fratelli: il suo attento e laborioso discernimento nel mezzo delle vicende che si trova a vivere è tutto dentro la relazione con il Padre suo. Per questo dice loro “il mio tempo non è ancora venuto”, mentre “il vostro tempo è sempre pronto”, perché i fratelli di Gesù, a differenza di lui, si sentono autosufficienti nel realizzare i propri progetti, anzi, si sentono autorizzati a farne anche per Lui! È appunto questo il “peccato del mondo” che Gesù, agnello di Dio. è venuto a togliere: la falsa autosufficienza del mondo, che si pensa e si muove indipendentemente da Dio. È questa la “cattiveria” del mondo che Gesù viene, semplicemente con la sua obbedienza filiale, a smascherare, e ad attirargli l’odio del mondo. Il tempo di Gesù non è il tempo dei suoi progetti, tanto meno di quelli degli altri su di lui: è il tempo dell’obbedienza cioè di quella unica vera libertà dentro la storia che è l’ascolto del Padre.