Isaia 53,1-10
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Prende ora la parola quella parte di Israele che testimonia l’esperienza del servo. Essi hanno visto in lui “un fatto mai ad esso raccontato” e hanno compreso “ciò che mai avevano udito”, e ora si rivolgono (non è una domanda retorica, come sembra dalla traduzione italiana!) a quanti sono stati disposti ad aprirsi al loro annuncio accogliendo questa inedita e paradossale manifestazione, nel servo sofferente, dell’opera potente di Dio nella storia: “chi ha creduto al nostro annuncio? a chi è stato manifestato il braccio del Signore?”. E così si torna con la memoria agli inizi disprezzabili e insignificanti della vicenda di questo servo. Il “noi” che parla, e racconta la sua storia, non solo testimonia di lui, ma insieme anche confessa la propria totale incomprensione e la propria violenza nei suoi confronti: sgradevole allo sguardo, ripugnante e diverso, colpito dalla malattia e dallo stigma sociale, “era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. La comunità che parla ammette di avere scaricato su di lui non solo discredito, ma tutto il proprio disgusto e la propria ripugnanza. Il servo è lo scartato, “disprezzato e reietto dagli uomini”, compresi coloro che ora ne stanno facendo memoria. Ma ora la “comunità confessante” riconosce che un’altra storia, a loro insaputa, si stava scrivendo, più profondamente, nel patimento di quel servo: “eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”. Nella vicenda del servo le nostre categorie di lettura della storia saltano: quel che ci sembrava un giusto castigo di Dio per il peccatore era invece un mistero di condivisione nel dolore, di accettazione su di sé da parte del servo della nostra stessa sofferenza. Lui ha accettato di sentire quel che noi non potevamo o non sapevamo sentire, e cioè la sofferenza prodotta della nostra stessa violenza, l’esito del nostro peccato: “Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità”. La sofferenza di quell’innocente ci ha aperto gli occhi sul male da noi fatto! E’ una straziante, intensissima confessione di un “noi” che riconosce il proprio peccato mentre guarda il “castigato”. E allo stesso tempo si scopre risanata in profondità, guarita proprio da quella violenza, e dalla sofferenza che vi si nascondeva dentro: “il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. In un certo senso ora scopriamo (questa è “la cosa nuova”!) in cosa consisteva quella consolazione promessa (cfr. 40,1)! Non è il castigo da noi subìto che ci salva davvero e guarisce fino in fondo, ma il dono che scaturisce da quel patire gratuito, mite, innocente e che apre un orizzonte impensato e fa “saltare i conti” verso un’ “altra giustizia”. Altrimenti il castigo non fa che lasciarci vagare ancora di più ciascuno per le sue strade, come un gregge colpito e disperso, come pecore che non sono più un gregge. Qui c’è la mano misteriosa di Dio, che prende “l’iniquità di noi tutti” e l’affida al servo, da noi disprezzato e condannato, perché possa essere generata la bellezza potente di un amore che ci salva. Il servo non ha voce. La mitezza del suo consegnarsi all’umiliazione è la fiducia illimitata del suo mettersi nelle mani di Dio, affidando a lui la sua causa. Le pecore disperse sono radunate e salvate dall’agnello che si offre muto. La “bocca” del servo era stata resa “come spada affilata” (49,2), e gli era stata data “una lingua da discepolo” per “indirizzare
una parola allo sfiduciato” (50,4), ma ora il servo non apre la sua bocca: è il suo corpo offerto a parlare. Esito di una condanna ingiusta e del totale disinteresse nei confronti suoi e del suo futuro, fu la sua morte: “fu eliminato dalla terra dei viventi, per colpa del mio popolo fu percosso a morte”. Il servo non commise violenza, ma fu l’oggetto della violenza, non disse nulla di falso, ma fu accusato ingiustamente, e finì per condividere la sepoltura infamante degli empi. Il “noi confessante” sa però una cosa con certezza: la parabola di dolore del servo innocente è nascosta e saldamente custodita nel mistero della volontà di Dio: “al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori… si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”. La morte del servo non solo grida il nostro peccato e la nostra violenza verso lo scartato, ma si trasforma in offerta che redime, in potenza di guarigione e salvezza per noi, in promessa di generazione nuova, di posterità, di vita sovrabbondante.