Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. Voi invece dite: “Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio”, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».
Il capitolo si apre con una controversia che tocca una questione importante: il comportamento dei discepoli è difforme rispetto alla tradizione. La questione riguarda sì una “pratica religiosa” (per questo ci sono i farisei, custodi della “halakhah”, cioè dalla normativa che regola il comportamento del buon ebreo; per questo li avevamo già visti interrogare Gesù sul comportamento dei discepoli riguardo al digiuno e all’osservanza del sabato in 2,18-28), ma che tocca dimensioni dottrinali (per questo ci sono anche gli scribi come in 2,6, cfr. anche 1,22) che per la loro importanza richiamano farisei e scribi addirittura dal centro religioso di Gerusalemme (come in 3,22) anticipando per altro la resa dei conti finale del vangelo. L’occasione è, ancora una volta, qualcosa che riguarda il cibo (del resto l’intera sezione che stiamo leggendo dal banchetto di Erode, attraverso le due moltiplicazioni dei pani ha questo filo conduttore…), anzi il “mangiare il pane” (letteralmente). E qui sorge una questione che ha a che fare con la novità portata da Gesù e al tempo stesso rispecchia la pratica comunitaria degli ascoltatori del vangelo di Marco (la chiesa di Roma) che condividono l’eucarestia e la mensa tra ebrei e pagani nell’ambito della stessa fraternità cristiana. Insomma, ancora una volta, vino nuovo in otri nuovi (2,22)! La questione del prendere cibo con mani impure non va banalizzata: non è, ovviamente, né una questione meramente “igienica” né il ritratto di una irrazionale ossessione religiosa. È una pratica che esprime l’alleanza speciale di Israele con Dio, popolo a lui consacrato, sottolineando una separazione dai pagani (con cui si poteva venire in contatto inavvertitamente frequentando per esempio un mercato), che (nel suo senso proprio) non è certamente fine a se stessa, ma è in linea con il dovere di una testimonianza coerente a loro favore perché tutti siano attirati a Dio. Ma qui certo il modo di comportarsi dei discepoli segna una discontinuità. E nella risposta di Gesù se ne comprendono le ragioni ben assestate nel patrimonio profetico stesso di Israele. La critica di Gesù, come quella dei profeti, va al cuore: non si tratta di difendere un comportamento tramandato, una tradizione, se nel frattempo si perde il contatto con il significato profondo del precetto di Dio. In questo modo quel comportamento invece che difendere ed esprimere, svuota di senso e falsifica ogni cosa: “trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini!”. Qui il punto non è negare la tradizione in quanto tale, perché è solo tramite una tradizione viva che ci viene consegnata la Parola di Dio, ma di lasciare che sia questa a criticare, mettere in discussione e rinnovare continuamente quella! I profeti lo sanno bene. In più qui certamente c’è la novità di Gesù: egli è dentro la tradizione di Israele, ma al tempo stesso ne è l’interprete supremo, il compimento e quindi è generatore di una “tradizione” radicalmente rinnovata, perché proveniente direttamente da Dio, da quei cieli strappati nella potenza dello Spirito! Questo ovviamente non significa che le stesse dinamiche di Parola e tradizione non interessino ugualmente la chiesa… questa del vangelo non è certo una critica del cristianesimo all’ebraismo: come il dibattito “osservanza della tradizione/obbedienza a Dio” è interno a Israele, così allo stesso modo è interno al cristianesimo (non è stata questa la grande e salutare critica della Riforma ad un Cattolicesimo irrigidito e formalizzato?). L’esempio portato da Gesù è precisamente un caso (“e di queste cose ne fate molte…”) di questa dinamica tipica della “religione senza spirito”: la distorsione della giustizia e l’evitamento delle esigenze della Parola di Dio (letteralmente è: “negate la signoria alla parola di Dio”) attraverso una manipolazione ipocrita della fede per perseguire i propri interessi mondani. E qui ci siamo tutti. Gesù è qui a dirci quanto è facile che ce la raccontiamo, e tentiamo di farla bere agli altri, mentre il nostro cuore è lontano da Dio.
Lui, il Figlio amato, nel quale c’è il compiacimento del Padre, è davvero tutto afferrato dallo Spirito di Dio, per un’accoglienza libera e senza riserve della sua parola: solo nella sua piena e amante sottomissione alla volontà del Padre possiamo anche noi ritrovare la verità della nostra conversione a Dio, lo smascheramento delle nostre ipocrisie, la forza di rimettere in discussione le tradizioni non più capaci di veicolarci la Parola, ma ormai divenute per noi solo una comoda inerzia, uno schermo, un’offuscamento, un’ostacolo, a volte perfino una scandalosa smentita del Vangelo.