Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
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Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Gesù rispondendo a farisei e scribi ha affrontato il rapporto, in generale, tra la parola di Dio e le tradizioni umane sottolineando la signoria dell’una sull’altra e anche l’incomparabilità tra ciò che viene da Dio e quel che gli uomini trasmettono, che rischia sempre di trasformarsi in una struttura che in realtà soffoca la parola. Ma Gesù intende rispondere al quesito specifico sulla purità, sollevato dalla domanda sul prendere il cibo con mani impure. La questione è di tale importanza che egli stesso convoca la folla con una solenne chiamata all’ascolto, per una parola sapienziale (un “mashal”, cioè una breve espressione data dal maestro, carica di significati a più livelli, che impegna il discepolo in un lavoro di “masticazione” che apre ad una comprensione sempre più profonda della realtà; i discepoli di Gesù si riferiranno ad essa come ad una “parabola”) su ciò che “rende impuro”. La parola è di quelle, appunto, da ascoltare con attenzione e apertura della mente e del cuore per disporsi a scoprire ed accogliere una perla nuova e nascosta, che chiama ad un nuovo orientamento interiore e della vita. Che cosa ci rende “impuri”? che cosa ci fa ricadere fuori dall’alleanza con Dio, in una condizione di lontananza e di estraneità rispetto a Lui? che cosa fa fallire la nostra vocazione alla comunione con Lui e ci riconsegna ad una vita semplicemente mondana (la parola che traduciamo con “rendere impuro” è letteralmente “rendere comune”, opposto a “santificare” cioè “separare per Dio”)? Per Gesù non si tratta di difenderci da ciò che dall’esterno può intaccare la nostra presunta santità acquisita, ma di lasciarci purificare nel cuore! “Non ciò che entra ma ciò che esce dall’uomo…”: in questo modo Gesù sposta tutto il baricentro all’interno, in quello spazio non “cultuale”, ma morale ed esistenziale nel quale si gioca l’autenticità della nostra vita davanti a Dio. Entrato in casa, come nell’occasione della parabola del seminatore, c’è un momento di iniziazione (tutto il vangelo di Marco può essere letto come un percorso di iniziazione), di approfondimento con i discepoli. La loro domanda sul significato della parabola è accolta da Gesù con sorpresa e un moto di rimprovero: “Anche voi siete a tal punto privi di intelligenza? Non capite…?”. Del resto poco prima, dopo la traversata, Marco aveva commentato la meraviglia dei discepoli scrivendo: “non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito” (6,52). E qui infatti è appunto tutto il succo della questione: “tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore…”. Che ne è del nostro cuore? Una religione interamente esteriorizzata non affronta il luogo vero della nostra relazione con Dio e con gli altri, lo spazio decisivo della nostra identità e della nostra libertà. È nel cuore che si gioca quel che siamo davvero e decidiamo o non decidiamo di diventare. Un cuore lasciato a se stesso, non “coltivato”, che non si lascia “educare” (condurre fuori), soffoca nelle sue “preoccupazioni, inganni e bramosie” (cfr. 4,19!), e non realizza la sua vocazione all’amore. Un elenco di dodici parole amplifica “quel guazzabuglio del cuore umano” che senza ascolto si indurisce e si perde: sei parole al plurale, sintetizzate dall’ultima “malvagità”, descrivono i modi con i quali il cuore esprime la sua violenza e genera distruzione delle relazioni, altre sei parole, al singolare, con un’ultima significativa “stoltezza”, indicano l’esito di fallimento del cuore stesso, il suo collassare nell’inganno, nella dissolutezza, nell’invidia, nella calunnia, nella superbia. Così “tutte queste cose… rendono impuro l’uomo”: non, appunto, perché lo sia già, o il suo cuore sia irrimediabilmente perverso (perché freudianamente abitato da impulsi repressi e inconfessabili), ma perché la terra che siamo, fatta per il seme della Parola, porta frutto nella misura in cui smette di affermare se stessa e la sua autosufficienza e si lascia condurre, purificare in profondità, toccare e trasformare dall’amore, nel Figlio amato del Padre.