Collatio Marco 13,28-37

«Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.

In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.
Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

Con una delicata immagine tratta dall’osservazione della natura Gesù si rivolge ai suoi per indicare loro come vivere questo tempo dell’attesa. L’andare in pezzi di ogni cosa è associato sorprendentemente all’intenerirsi del ramo di fico e al suo mettere fuori le foglie: Gesù sa vedere e mostrare ai suoi, mentre tutto crolla, l’interiore movimento di vita che attraversa la creazione e la storia verso l’incontro ultimo che domina, dietro le porte del tempo, l’orizzonte del tutto. Ai discepoli che avevano domandato il quando della fine e i suoi segnali, Gesù risponde orientando l’attesa all’incontro con Lui, nella gloria. Questo solo importa davvero sapere. Tutto avviene in questa generazione, in ogni generazione di credenti: attraversare la fine e la morte diventa l’aprirsi di una porta, il varcare una soglia per l’incontro pieno e definitivo con Lui. Anzi è proprio a motivo del suo essere vicino, alle porte (cfr. Ap 3,20: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”), che tutto è consumato, la scena del mondo passa, perché rimanga Lui solo e gli eletti radunati e sollevati con Lui presso Dio. I discepoli non sono in balìa dello scorrere di tutto: sanno riconoscere il movimento di vita dello Spirito dentro le doglie della creazione e della storia (v. 8!), perché possono aggrapparsi, come ad un’ancora di salvezza, alle parole di Gesù, che non appartengono all’ordine di questo mondo che passa, ma vengono loro incontro, attraverso la mediazione del Figlio amato, dalla gloria di Dio e dal suo amore fedele e incrollabile: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (9,7!). Il mondo non è un tutto autosufficiente: Gesù ha fin dall’inizio contemplato i cieli squarciati, e solo un mondo attraversato da questa ferita si apre all’irruzione della potenza nuova dello Spirito per l’affermarsi del regno di Dio. La certezza di questo destino della storia verso il Cristo glorioso è però anche un tutt’uno con l’assoluta incoscienza del quando. Le parole che non passano, e che custodiscono la sapienza del fine, sono le parole del Figlio obbediente: non consegnano altro potere se non quello di lasciarsi afferrare dal Padre. La sua non è la conoscenza di chi “vuole sapere” per controllare, diventare autosufficiente, innalzarsi secondo la grandezza del mondo, ma la sapienza filiale di chi si fa piccolo come un bambino, di chi si fa ultimo, servitore di tutti, per imparare a ricevere tutto come un dono. La sapienza del discepolo è vivere così il tempo della storia sapendo di non sapere, ma anche di essere in attesa dell’incontro certo e definitivo con Gesù. A noi è stata affidata la casa del nostro corpo, della chiesa, della comunità umana, della creazione, perché operando secondo il potere di perdono e liberazione di Gesù rimaniamo vigilanti, fino al giorno del suo glorioso ritorno. “Fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati!”.

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