Matteo 26,14-16
Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo.
C’è un “allora” che collega il tradimento di Giuda a quello che precede; potremmo pensarlo come una reazione al gesto della donna (“questo è troppo!”) o forse come il semplice dispiegarsi della parola di Gesù che sta all’inizio della narrazione: “il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”. Giuda si rivolge ai “capi”. Alla libertà di quella donna senza nome, il racconto contrappone la logica servile di Giuda, uno dei dodici. Il senso di sgomento e di orrore davanti al mistero di male che si addensa su Gesù riempie la pagina del vangelo; da qui comincia una storia in cui la trama più oscura dell’iniquità avvolge e sembra occupare tutto il racconto. Gesù vi entra e l’attraversa come Signore, è Lui il centro di tutto. Non c’è bisogno di fare riferimento al suo nome, che non è neppure sulle labbra di Giuda: “perché io vi consegni lui”. “Lui” non può che essere Gesù, il “Figlio dell’uomo”, il Signore, che l’unzione nella casa di Simone ha posto al centro del racconto con tutta la densa concretezza della sua corporeità. Delle motivazioni di Giuda non c’è parola nel racconto e c’è spazio perché ciascuno vi legga i propri tradimenti. Ma la consegna di Gesù è qualcosa di molto più grande e misterioso, e il suo viaggio fino alla morte è un evento irriducibile a tutte le possibili spiegazioni. Giuda qui non è che una comparsa, e le sue trame non fanno che contribuire a realizzare la parola di Colui che entra consapevolmente e liberamente nel mistero del male e della morte per un dono più grande di amore e di vita.