Matteo 27,39-44
Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!».
Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”!». Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso modo.
Sotto la croce si infrange definitivamente l’immaginario del “Figlio di Dio” come di colui che è potente, vincente, immune alla sconfitta, esente dal fallimento, un privilegiato avvolto dalla protezione divina contro la sofferenza, la fatica e le contraddizioni dell’esistenza comune. Risuona ancora una volta quel “se tu sei Figlio di Dio…” che avevamo sentito pronunciare dal Tentatore al principio della missione di Gesù: “Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra»”. (Mt 4,5-6). Ora questa ultima tentazione per tre volte ripropone la versione mondana, satanica della salvezza: salva te stesso, scendi dalla croce. I passanti, i capi (come all’inizio della passione annoverati solennemente in tutte e tre le “categorie”) e perfino i malfattori crocifissi: Gesù è solo, abbandonato dal suo popolo, nel portare fino in fondo una vita seminata nel dono di sé (“chi vorrà salvare la propria vita la perderà…”), nella rinuncia a usare la propria potenza, nella piena fiducia in Dio, Padre suo. Ancora una volta è citato il Salmo 21 (“Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene”) e sono, nel salmo, le parole beffarde degli empi che si prendono gioco del giusto perseguitato e della sua fiducia in Dio. Ma, certo, che queste parole escano dalla bocca dei capi d’Israele suona come uno tradimento, uno stravolgimento terribile. E così il vangelo stesso ironizza sulle ironie beffarde di questo personaggi che circondano Gesù, e che senza volerlo di fatto con le loro parole celebrano la sua persona e confermano, a mo’ di didascalia, il senso profondo di quell’essere crocifisso: nel suo essere “distrutto e ricostruito” in tre giorni Gesù è il nuovo tempio, presenza definitiva di Dio e della sua salvezza, manifesta il suo essere Figlio di Dio, proprio accettando di non salvare se stesso e di non scendere dalla croce, come estremo atto di obbedienza e di amore di una vita che, a detta dei suoi stessi schernitori, Gesù ha vissuto e donato cercando e operando la salvezza degli altri, come vero “re d’Israele”; e anche noi crederemo in Lui proprio riconoscendo la potenza del suo amore fino alla fine, del Figlio che ha confidato non in se stesso, ma in Dio e nel suo amore di Padre. Qui finisce la religione “sacrale” del favore divino, come di un “vaccino anti-morte”. Gesù scende fino in fondo, laicamente, nella morte, così com’è, di ogni uomo, mettendoci la propria nuda fiducia nel Padre.