Isaia 7,18-25
Avverrà in quel giorno: il Signore farà un fischio alle mosche che sono all’estremità dei canali d’Egitto e alle api che si trovano in Assiria. Esse verranno e si poseranno tutte nelle valli scoscese, nelle fessure delle rocce, su ogni cespuglio e su ogni pascolo.
In quel giorno il Signore raderà con rasoio preso a nolo oltre il Fiume, con il re d’Assiria, il capo e il pelo del corpo, anche la barba toglierà via.
Avverrà in quel giorno: ognuno alleverà una giovenca e due pecore. Per l’abbondanza del latte che faranno, si mangerà la panna; di panna e miele si ciberà ogni superstite in mezzo a questa terra.
Avverrà in quel giorno: ogni luogo dove erano mille viti valutate mille sicli d’argento, sarà preda dei rovi e dei pruni. Vi si entrerà armati di frecce e di arco, perché tutta la terra sarà rovi e pruni. In tutti i monti, che erano vangati con la vanga, non si passerà più per paura delle spine e dei rovi. Serviranno da pascolo per armenti e da luogo battuto dal gregge.
Per quattro volte viene ripetuto “in quel giorno”, come a scandire con ineluttabile gravità il tempo imminente della devastazione. Sono immagini allusive e inquietanti, che si aggiungono l’una all’altra in un incalzare terribile, oltre ogni limite. Il Signore si riprende il suo dominio sul paese attraverso l’invasione straniera: un dilagare pervasivo, insistente, indominabile, onnipresente, soffocante come una immenso assalto di mosche e api che non lascia nessuno spazio libero. Sarà come un terribile rasoio che strappa ogni dignità al corpo di un popolo ridotto alla vergogna: è il Signore stesso che si serve dell’Assiria per questa umiliazione del popolo. Le condizioni di abbandono del paese ne faranno un luogo di pascoli e i pochi rimasti si ciberanno di panna e miele in une terra non più coltivata. La ricchezza delle mille viti preziose (un eccesso di ricchezza!) si tramuterà in “rovi e pruni” come aveva detto l’amato a proposito della sorte della sua vigna malvagia: “la renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni” (5,6). Sembra il compiersi di quella parola di Dio al primo Adamo peccatore: “maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre” (Gen 3,17-18). La terra offre una resistenza alla mano dell’uomo, perché l’uomo faccia memoria che la terra è un dono di Dio e non può abusarne. Il sesto giorno Dio si è riposato da ogni sua opera e Israele deve osservare il sabato come memoria di questo limite. La terra che torna a questo suo stato “incolto” è la rivincita di una terra sfruttata, violentata dall’orgoglio e dall’avidità umana. Ogni sette anni Israele deve osservare l’anno sabbatico, cioè astenersi dal coltivare la terra e cibarsi solo dei frutti spontanei per ricordare che la terra appartiene a Dio e che rimane una promessa e un dono (cfr. Es 23,10-11; Lv 25,1-7.20-22!). Una terra posseduta, sfruttata, violentata (“tutti i monti… erano vangati con la vanga”!) con la deportazione del popolo torna in una condizione di “selva” e di libertà: “Allora la terra godrà i suoi sabati per tutto il tempo in cui rimarrà desolata e voi sarete nel paese dei vostri nemici; allora la terra si riposerà e si compenserà dei suoi sabati. Finché rimarrà desolata, avrà il riposo che non le fu concesso da voi con i sabati, quando l’abitavate” (Lv 26,34-35). L’Adamo inorgoglito e innalzato ora è umiliato (cfr. 2,6-22; 5,15!), e la sua presenza esigua sulla terra, il piccolo resto è l’inizio di un popolo nuovo.