Collatio 15-6-2019

Ebrei 11,13-16

Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra.

Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.

Tutti muoiono, ma essi morirono “nella fede”: questo cambia tutto. Non una fede che aveva come aspettativa il realizzarsi delle promesse in questa vita, ma una fede che oltrepassa la morte, in nome di ciò che “videro e salutarono da lontano”. La fede affronta, attraversa, trasforma la morte e così ci rende “stranieri e pellegrini” sulla terra (cfr. 1 Pt 1,1.2,11), poveri, viandanti, provvisori. “Dichiarando di essere stranieri e pellegrini…”: la memoria biblica dell’autore della lettera va al capitolo 23 di Genesi in cui Abramo deve affrontare la morte e il lutto di sua moglie Sara, partecipe con lui delle promesse. È la prima volta in cui si narra della morte di un destinatario delle promesse di Dio. Nella terra il Signore non aveva dato ad Abramo “alcuna proprietà, neppure l’orma di un piede” (At 7,5; cfr. Dt 2,5), ma Abramo ora intende a tutti i costi acquistare un sepolcro nella terra di Canaan, accettando anche di pagarlo uno sproposito. E comincia il suo discorso agli Hittiti abitanti del luogo dicendo proprio così: “Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi” (Gen 23,4). L’unica cosa che Abramo possederà della terra sarà un sepolcro, che dopo Sara ospiterà lui e i suoi figli fino a Giuseppe. In un certo senso la promessa di entrare e possedere la terra si compie proprio così, morendo ed entrando nel sepolcro! Cercare la patria, dunque, per chi crede, non è tornare ai “natali”, al luogo che ti ha accolto in questa vita sulla terra, ma andare verso la “patria migliore, cioè quella celeste” alla quale si nasce morendo. Il credente non culla nella sua memoria la nostalgia di ciò che ha avuto (cfr. Es 16,3, Nm 11,5, etc.), ma è proiettato, “aspira” a ciò che il Signore promette, al futuro di Dio (cfr. Fil 3,13). I credenti, come pellegrini, non si spartiscono il potere di questo mondo, ma attendono la città preparata da Dio: egli non si vergogna di loro, la cui fede li ha resi marginali, disprezzati, irrilevanti per le logiche del mondo (Mt 5,1-12; 18,1-4), ma “scelti e preziosi” per lui (1Pt 2,4), testimoni per tutti del Regno che viene, della speranza più grande.

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