Ebrei 13,1-6
L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli. Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo.
Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri saranno giudicati da Dio. La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò. Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?
Come ascoltavamo nei versetti precedenti, il “regno incrollabile” che possediamo è il mondo riconciliato in Gesù e donato a noi credenti: questa grazia, custodita nella perseveranza della fede, ci permette di rendere il culto gradito a Dio. Ed ecco ora, in concreto, la lettera ci indica in cosa consiste questo regno, come si conserva questa grazia, come si esprime questo culto: la “filadelfìa”, la “filoxenìa”, la condivisione della condizione dei carcerati e dei sofferenti, il rispetto per il matrimonio, la fiducia nel poco. La “filadelfìa”, cioè l’amore fraterno, tra i cristiani, è la prima fondamentale risposta della fede alla grazia: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’indicazione della lettera è che questo amore “rimanga”, perché, dopo gli inizi, è sempre tentato di sbiadire, di essere sommerso dai distinguo, di perdere la sua forza, splendore, attrattiva, di smettere di essere il luogo primario e solido della condivisione semplice e grata della gioia cristiana. Poi subito accanto a questo c’è la “filoxenìa”, l’amore per lo straniero, che è il radicale riconoscimento che il Signore si manifesta e viene sempre a noi “come da un’altra parte”, non è un semplice “prodotto interno” della comunità cristiana. È l’esperienza primaria del Risorto, che i discepoli non riconoscono e considerano uno “straniero” (Lc 24,18). È la sorpresa del giudizio che ci attende, quando scopriremo che lo straniero che abbiamo o non abbiamo accolto era Gesù stesso (Mt 25,35): “Ecco io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Così fu per Abramo, la cui generosa accoglienza verso i tre misteriosi stranieri giunti alla sua tenda “nell’ora più calda del giorno”, lo aprì ad una presenza celeste, portatrice di nuova fecondità (Gen 18,2ss). Il “regno incrollabile” è dunque la carità, che si esprime anche, in modo privilegiato verso i sofferenti. È bellissimo come la lettera agli Ebrei esprima questo con il senso profondo di empatia che deve animare ogni gesto di amore e di vicinanza verso chi soffre: immedesimandosi così intensamente da provare quella stessa condizione, “come foste carcerati insieme a loro”. Se non si accetta di lasciarsi toccare così profondamente, patendo e sentendo “nel proprio corpo” ciò che vivono “coloro che sono maltrattati”, difficilmente si potrà “ricordare”, continuare ad avere nel cuore, nella memoria, nell’affetto, nella preghiera. Non c’è niente di più “cristiano” di questa solidarietà in tutto con chi soffre, come ha fatto Gesù, incidendo indelebilmente noi, attraverso il suo patire, nel suo corpo offerto: “poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo ne è divenuto partecipe… doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele… proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2,14-18 passim); “non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi…” (4,15). Ecco infine le due ultime indicazioni per una vita che “custodisce la grazia”: il rispetto delle nozze, che non devono essere né disprezzate da un falso spiritualismo disincarnato che le considera un cedimento al mondo, né violate, macchiate dalla follia del proprio egoismo e prepotenza, dal dominio della propria sensualità e dalla ricerca miope e senza limiti della propria falsa soddisfazione; e poi la cura nel mantenere un modo di vivere “afilàrgyro”, cioè “senza amore per il denaro”: torna qui sempre la radice di “filìa” che avevamo visto all’inizio di questo elenco. Per la lettera agli Ebrei la vita cristiana è sempre una questione di “amore”, di orientamento degli affetti: per Gesù e conformemente al suo dono. Amare il denaro, respingere una vita modesta, sobria, semplice, non accontentarsi di quello che si ha, ma lasciarsi contaminare e ammalare dall’ansia del possedere, di cercare di mettere (inutilmente e disperatamente) “al sicuro” la nostra vita, contraddice e disperde l’unico nostro bene, il regalo di Gesù: la nostra fede, la nostra fiducia in Dio. È bellissimo questo ultimo dialogo che la lettera ci propone, fatto con le parole della scrittura; il credente, intimorito e preoccupato per la sua condizione di povertà, si sente esposto al pericolo, ma ascolta il Signore che non gli dice: “ti risolvo io i tuoi problemi” o “ti faccio diventare ricco”, ma semplicemente e fermamente lo rassicura che non rimarrà solo: “non ti lascerò e non ti abbandonerò!” (cfr. Dt 31,6.8 e 1Cr 28,20: interessante vedere come in entrambi i passi si tratti di un personaggio che sta uscendo di scena – nel primo è Mosè, nel secondo Davide – e che con queste parole rassicura chi prenderà il suo posto – rispettivamente Giosuè e Salmone – perché faccia affidamento sulla fedele presenza del Signore). Ecco qui la fiducia del credente, che si esprime con le parole del Salmo: “Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura!”. Forse davvero tutta le cristologia della lettera agli Ebrei si può riassumere in questo “non ti lascerò e non ti abbandonerò!” che Gesù dice a noi nell’Eccomi dell’incarnazione fino alla croce. Da qui sgorga tutta la vita nuova dei credenti! Amore dei fratelli, amore dello straniero, partecipazione con chi soffre, fedeltà e rispetto delle nozze, fiducia nel bisogno.