Giovanni 5,41-47
Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio.
Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
Le ultime parole di Gesù in questo lungo discorso sono un’accorata denuncia di quella spaccatura tra lui e i Giudei che li costituisce in un conflitto radicale, perché su due logiche incompatibili. L’accusa è terribile e semplice: “non avete in voi l’amore di Dio”. Questo colloca Gesù e i Giudei su due piani incomunicabili, in due mondi contrapposti e inconciliabili. Tutta la ragion d’essere di Gesù e del suo venire abita nel seno del Padre e la sua gloria è essere Figlio, manifestazione al mondo del volto di Dio (1,14); non c’è nulla in Gesù che non appartenga al Padre, che non sia riferimento a lui; non c’è in lui altra ricerca se non la volontà del Padre per ricevere da lui solo la gloria del suo compiacimento: questo è tutto il cuore ardente del suo spirito filiale. Gli interlocutori di Gesù sono invece appiattiti nella inesausta e vana ricerca del compiacimento degli uomini, di quel falso nutrimento della gloria, cioè della considerazione, dell’approvazione, del consenso degli altri, che li rende schiavi di una dinamica di reciprocità “meccanica” e che li rende ipocriti, calcolatori, ansiosi (cfr. Lc 6,32-35). Ma la gloria è solo di Dio. Davanti alla sua “consistenza” (la parola gloria in ebraico significa prima di tutto “peso”, contrapposto a “vanità”) tutta la gloria umana è come soffio, come fiore del campo che dura un giorno (cfr. Is 40,6-7!), perché “quel che è nato dalla carne è carne” (cfr. 3,6) si corrompe, passa, è inconsistente, e la sua pretesa di gloria è un inganno. Allora tutto questo nostro affanno per ottenere un po’ di gloria umana non solo ci incatena in dinamiche servili, pavide e ottenebranti, ma ci svigorisce, ci indebolisce, ci svuota, per cui, dice Gesù: “non avete la forza di credere” (letteralmente). Credere è un atto di forza e di libertà, è gettarsi nelle mani di Dio arrischiando la vita per amore suo con tutto il vigore di uno spirito liberato; “ma io vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio”. Il Figlio amato del Padre è libero dalla dinamiche soffocanti del riconoscimento reciproco: “io non ricevo gloria dagli uomini”. E proprio per questo non è accolto, perché dipende solo dal Padre e questo lo colloca fuori dalle logiche del controllo e del potere del mondo: “se un altro venisse nel proprio nome lo accogliereste”, perché ripeterebbe la dinamica vecchia della ricerca della propria affermazione, all’interno della modalità chiusa, autoreferenziale di un mondo che pretende di costruire da sé la propria gloria: “come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”. Ecco allora forse il senso più prossimo di quella frase che avevamo ascoltato qualche versetto fa: “vi dico queste cose perché siate salvati” (v. 34). La denuncia di Gesù non è fine a se stessa, non è una condanna; è la possibilità per i suoi interlocutori di essere liberati dalla menzogna di quel “mercanteggiamento” di gloria umana che impedisce il vigore dello spirito necessario per credere: solo una animo libero e filiale, agganciato al Padre e alla ricerca sincera della sua volontà, può aprirsi nella fede senza paura, senza infingimenti, a Gesù sorgente di vera vita. Gesù non condanna, anzi, indica ai Giudei la strada che già conoscono per ritrovare il vigore dello spirito e credere in Lui: tornare al senso vero di quella liberazione operata da Dio attraverso Mosè, scoprendo che i suoi scritti non fanno che indicare Lui. Credere davvero a Mosè significa non perdersi scrutando lettere che non danno vita, ma aprirsi alla relazione con Dio che parla, e che parla ora, qui, in Gesù suo Figlio. E chi ascolta conosce la verità ed è liberato (cfr. 8,31-32).