Giovanni 6,28-33
Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?».
Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
“Operate non il cibo che non dura, ma il cibo che rimane per la vita eterna…” aveva detto Gesù alle folle. Ed ecco ora la domanda proprio a proposito di questo “operare”: “che cosa dobbiamo compiere per operare le opere di Dio?”. Lo avevano chiamato “Rabbì” (v. 25) e ora gli chiedono di indicare loro la via pratica della vera obbedienza alla Legge di Dio, per poter ricevere il cibo che dura, la benedizione e la gioia promesse a coloro che gli obbediscono. Sembra qui riecheggiare la domanda del giovano ricco dei vangeli sinottici: “Maestro, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17p). È la domanda più importante di chi intende divenire discepolo di un Rabbi, di un uomo esperto delle cose di Dio. E Gesù risponde “alzando la posta in gioco”: io non sono un autorevole maestro della legge di Dio, che vi introduce all’esperienza della via già tracciata dai padri, che vi aiuta a vivere la grande tradizione spirituale ricevuta magari con nuova profondità ed efficacia; no, io sono l’inviato di Dio, che rivela in modo nuovo il suo volto, e che ora siete a chiamati ad accogliere con fede. Credere è dunque innanzitutto riconoscere l’opera di Dio che invia Gesù, qui ora, a noi. In questa fede, in questo terreno nuovo di incontro con Dio in Gesù, la vita porta il frutto buono che Dio attende. Ogni altro operare rischia di rimanere un vano affannarsi, la costruzione di una propria pretesa giustizia. L’opera, unica, in cui c’è ogni operare, è la fede, e la fede non è una “credenza”, è un’opera: è l’accoglienza della potenza trasformatrice della nostra vita che Dio ci dona nell’inviato Gesù. La folla risponde a Gesù chiedendo un segno che lo accrediti come inviato di Dio, come già a Gerusalemme avevano fatto i Giudei, dopo che Gesù aveva preteso di essere, in quanto Figlio, proprietario e purificatore del tempio (2,18). Ci verrebbe da dire che il segno Gesù lo ha appena fatto, il giorno prima, proprio per questa folla; ma questo dialogo era cominciato proprio con queste parole di Gesù: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati”. Effettivamente secondo il Vangelo di Giovanni i testimoni del segno dei pani, propriamente, sono i discepoli, che sanno “da dove” vengono, e quanto è avanzato; la folla, semplicemente, ha mangiato e si è saziata, all’insaputa di tutto… Forse per questo ora chiede un segno, come nel deserto ai padri fu dato “un pane dal cielo”, e Mosè, contro il quale il popolo aveva mormorato, fu accreditato come inviato di Dio, rivelatore della sua volontà per il popolo. La domanda di un segno, quindi, ha una sua coerenza: la folla si rende conto della grande pretesa di Gesù, cioè di essere, come addirittura Mosè, l’inviato di Dio. A questo punto Gesù fa un passo avanti, aiuta la folla a riflettere e sposta ancora il punto di osservazione: la manna, pane dal cielo, non fu donata ai padri da Mosé, ma da Dio, che è “il Padre mio”; è a lui che dobbiamo guardare per comprendere cosa sta succedendo ora, qui. Gesù non fa un segno perché è lui il segno, il pane dal cielo, quello vero. Fare un segno per accreditarsi sarebbe come “testimoniare di se stesso” (5,31), sarebbe come cedere alla tentazione di innalzarsi. L’esempio della manna, pane dal cielo, dà a Gesù l’occasione di indicare come riconoscere il pane di Dio: essendo che è “dal cielo”, il vero pane “discende” dal cielo. E questo suo discendere per dare la vita al mondo lo si può riconoscere proprio in questo: dall’umile abbassarsi del Figlio obbediente. “Nessuno è mai salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il figlio dell’uomo” aveva detto a Nicodemo (3,13); ai discepoli: “mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato…” (4,34); ai Giudei: “il Figlio non può fare nulla da se stesso se non ciò che vede fare dal Padre… io sono venuto nel nome del Padre mio e non mi accogliete, se un altro venisse nel suo nome, lo accogliereste” (5,19.43). Attenzione al pane che “si innalza”! Il pane, il nutrimento vero, da Dio, che dà la vita al mondo “discende”.