Collatio 04-09-2019

Giovanni 8,31-38

Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».

Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.
So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro».

Con tutte le incomprensioni e ombre del caso, dunque, effettivamente vi è un gruppo di Giudei che ha creduto a Gesù e alla sua pretesa messianica. È a loro che ora Egli si rivolge proponendo una vera e propria “alleanza discepolare” per la libertà. Credere è l’inizio di un cammino di ascolto e di fede che nella fedeltà alla Parola di Gesù apre alla conoscenza di Dio come Padre, mistero di amore, che rende liberi. Ed ecco la reazione dei Giudei neo-credenti: “noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno!”. Dai toni scomposti (e dai contenuti più che discutibili… la storia della discendenza di Abramo è quasi interamente la storia di un popolo variamente sottomesso e a più riprese liberato…!) s’intuisce che Gesù ha toccato un nervo scoperto. Non c’è dubbio: i credenti in Lui attendono un liberatore, e sperano che sia Lui, ma non “questo tipo” di liberatore! Gesù non parla di liberazione dal dominio degli stranieri oppressori, ma di liberazione dalla menzogna, dall’inganno, che solo un cammino di discepolato, di cambiamento interiore e di vita può ottenere. La liberazione di cui parla qui Gesù non è esterna, ma, e per questo tanto più esigente e impegnativa, esistenziale, dell’anima, del cuore, della mente, e quindi del proprio modo di vivere il rapporto con Dio, con il mondo e con gli altri. La schiavitù, dunque, è un’altra, ben più profonda e insidiosa: “In verità, in verità io vi dico, chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”. Ci sono due modi per “stare nella casa”, per vivere la relazione con Dio: lo schiavo e il figlio. Gesù è il Figlio, colui “che è nel seno del Padre” (1,18), è lì che “rimane”, è quello il luogo della sua abitazione (1,38-39); aveva detto poco prima “non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato” (8,16) e ancora “colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (8,29). La condizione dello schiavo, invece, è di chi è in casa ma vorrebbe essere da un’altra parte, è insoddisfatto, triste, oppresso, perfino risentito. Ricordate la parabola del padre misericordioso? Il figlio maggiore, a differenza del minore “prodigo”, rimane sì in casa, ma le sue parole svelano una realtà interiore ben diversa: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio…”(Lc 15,29-30). La condizione dello schiavo, è qui in realtà la condizione di un figlio che non conosce il padre, e che non riconoscendo la verità di lui, non conosce neppure la verità di sé come figlio e dell’altro come fratello e, di fatto, “non rimane nella casa”. Gesù, che “rimane” nella relazione con il Padre, offre ai credenti in lui di “rimanere” nella sua parola, perché nella relazione con Lui conoscano il Padre, si riconoscano figli nel Figlio e vivano così pienamente liberati dalla paura, dalla menzogna e dal peccato: “se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero”. Essere discendenti di Abramo, dunque, è operare quella stessa apertura e ospitalità verso la parola di Gesù che il padre Abramo riservò, nella concretezza della sua vita e della sua obbedienza, a Dio, alla sua Parola e alla sua presenza negli ospiti misteriosi giunti fino a lui; la chiusura, invece, dei Giudei alla parola di Gesù è un tutt’uno con l’intento di morte: “cercate di uccidermi perché la mia parola non trova spazio in voi!”. Non è una parola come le altre, è la parola del Figlio, di colui che, solo, “ha visto”: “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”; questa è la pretesa di Gesù: “Io dico quello che ho visto presso il Padre”, e questa parola o è accolta, o si fa spazio in noi e ci trasforma in discepoli della verità che libera, o è rifiutata e l’esito è la morte. Gli altri, cui ancora non è dato come il Figlio di “vedere”, possono imparare solo mettendo in pratica quello che ascoltano… ma da quale padre, da quale maestro di vita?

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