Atti 1,12-26
Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in giorno di sabato.Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi: vi erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo, Simone lo Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui.
In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè “Campo del sangue”. Sta scritto infatti nel libro dei Salmi:
La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti,
e il suo incarico lo prenda un altro.
Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione».
Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto, e Mattia. Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava». Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli.
Sulla parola di Gesù i discepoli fanno ritorno a Gerusalemme: non si rimane in attesa dello Spirito che dà vita e futuro in un luogo qualsiasi. Gerusalemme è la memoria di Gesù, del suo amore donato fino in fondo sulla croce, ma quindi è anche la memoria del rifiuto, del patimento e della morte, luogo del tradimento e del rinnegamento, del dolore e delle speranze deluse. È il luogo dal quale i discepoli di Emmaus se ne vanno via intristiti, come una pagina da girare, lo scenario di un fallimento da dimenticare. Ma è proprio lì che i discepoli devono stare in attesa, facendo i conti con le loro diversità, ambizioni, rivalità, imparando a superare la tentazione di incolparsi a vicenda, di regolare i conti, di ricominciare a chiedersi chi sia il più grande (come durante l’ultima cena…! Lc 22,24-27), chi abbia capito davvero il lascito di Gesù, chi ne sia l’erede, chi debba comandare, di dividersi in piccoli gruppi, fazioni, correnti, in base a provenienze, affinità, sesso, parentela… Sono lì, insieme, tutti, con le loro diversità “esplosive”, in preghiera, “perseveranti e concordi”, tenendo ben stretto, nonostante tutto, l’unica cosa affidata da Gesù: stare insieme, attendendo, nella vigilanza della preghiera comune. Ma una cosa salta all’occhio attento: i dodici, di cui si fa un nuovo elenco (come in Lc 6,13,16), sono ora diventati “gli undici” (chiamati così già in Lc 24,33)! il gruppo in preghiera è un’assemblea ferita. È Pietro e mettere le parole a ciò che pian piano emerge dalla preghiera comune dei salmi: la vicenda di Giuda, del suo tradimento e della sua fine tragica non sarà un tabù da seppellire nel silenzio per poter procedere “come se nulla fosse”. È il trauma di sapere che in ogni momento, per ciascuno, rimane la possibilità del naufragio della fede, della relazione con Gesù, e di scegliere la morte. È solo dalla preghiera comune delle Scritture, in particolare dei Salmi, che la comunità, interpretata autorevolmente da Pietro, è in grado di elaborare un senso, di rimarginare una ferita. “Fratelli, era necessario…”, non nel senso di una necessità fatalistica, ma nel riconoscimento che tutto rientra nella rivelazione di un progetto e di un amore più grande. E così è possibile riflettere sulla sorte di Giuda a partire dal versetto del Salmo che parla della dimora inabitabile dell’empio: la terra comprata da Giuda con il prezzo del sangue di Gesù è una terra che diviene impossibile da abitare perché oggetto di possesso e di violenza da parte di chi, scelto da Gesù per servire, si mette a capo, “fa da guida” a coloro che arrestano Gesù; una violenza che infine si ritorce su colui che la usa (il riferimento alla morte di Giuda non sembra tanto una descrizione dell’avvenimento, quanto uno stereotipo letterario della morte dell’empio che non è condannato, ma si condanna da solo, “scoppiando dal di dentro”: cfr. Sap 4,16-19). Ma la preghiera dei Salmi non ha solo dato luce a quella vicenda terribile, ma indica anche come sia possibile rimarginarne la ferita: “il suo incarico lo prenda un altro”. Una parola della Scrittura che si sperimenta nel suo adempiersi continuo, non solo nella vita di Gesù, ma anche nella vita della comunità dei suoi discepoli. L’incarico è quello di costituire la “memoria fondativa” della comunità e del suo futuro nella storia, e per questo è necessario che colui che dovrà prendere il posto di Giuda abbia fatto tutta intera l’esperienza del discepolato di Gesù: “per tutto il tempo nel quale entrò e uscì da noi il Signore Gesù” (così letteralmente). Ci vuole qualcuno che condivida la testimonianza originaria degli apostoli, perché sia completa: “uno divenga testimone insieme con noi”. Nessuno può averla interamente “in proprio”: è solo il “coro” degli apostoli nella sua intera sinfonia che rende ragione al mondo della risurrezione di Gesù. Immaginiamo la discussione sui candidati, e infine la preghiera con la quale la comunità affida a Gesù stesso, il “Signore che conosce il cuore di tutti”, l’ultima decisione. Giuda ha scelto “il proprio posto” (così letteralmente!) invece che accogliere fino in fondo la scelta di Gesù su di lui (“non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” Gv 15,16). Ora di nuovo è al Signore che è affidata la scelta. Mattia è associato dunque al servizio di testimonianza degli undici. Non saranno più “i dodici”. Saranno ora gli “undici + uno”, e Mattia sarà “l’aggiunto”. Rimarrà nella Chiesa dentro la storia, fin nelle sue fondamenta, il segno di questa ferita rimarginata, di questo fallimento superato, ma sempre ancora possibile per ciascuno. Solo la Gerusalemme celeste, che scende dal cielo, avrà finalmente per fondamento “i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello” (Ap 21,14).