Collatio 4-7-2020

Atti 26,19-32

«Perciò, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste, ma, prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e infine ai pagani, predicavo di pentirsi e di convertirsi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione.

Per queste cose i Giudei, mentre ero nel tempio, mi presero e tentavano di uccidermi. Ma, con l’aiuto di Dio, fino a questo giorno, sto qui a testimoniare agli umili e ai grandi, null’altro affermando se non quello che i Profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti».
Mentre egli parlava così in sua difesa, Festo a gran voce disse: «Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!». E Paolo: «Non sono pazzo – disse – eccellentissimo Festo, ma sto dicendo parole vere e sagge. Il re è al corrente di queste cose e davanti a lui parlo con franchezza. Penso infatti che niente di questo gli sia sconosciuto, perché non sono fatti accaduti in segreto. Credi, o re Agrippa, ai profeti? Io so che tu credi». E Agrippa rispose a Paolo: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!». E Paolo replicò: «Per poco o per molto, io vorrei supplicare Dio che, non soltanto tu, ma tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino come sono anche io, eccetto queste catene!».
Allora il re si alzò e con lui il governatore, Berenice e quelli che avevano preso parte alla seduta. Andandosene, conversavano tra loro e dicevano: «Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene». E Agrippa disse a Festo: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare».

Paolo ha semplicemente obbedito alla visione celeste: è questa la sua difesa. E quindi ha predicato a tutti, Giudei e pagani, di convertirsi a Dio, di rivolgersi a Lui, di comportarsi in modo degno della conversione. Ed è semplicemente questo il motivo dell’accusa da parte dei Giudei nei suoi confronti, anzi, del loro tentativo di ucciderlo nel tempio. Non hanno voluto sentirsi dire che dovevano convertirsi a Dio, pensavano di essere giusti, irreprensibili, anzi giudici degli altri, e non loro stessi bisognosi di conversione! Paolo non ha nulla da nascondere: la sua testimonianza a tutti è semplice obbedienza al volere di Dio: “con l’aiuto di Dio, fino a questo giorno, sto qui a testimoniare agli umili e ai grandi…”. E la sua testimonianza non è altro che il compimento, in Gesù, di ciò che Mosè e i profeti avevano predetto: “che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti”. Sentiamo in queste parole la sintesi di tutto il vangelo, dalle parole di Simeone (2,32: “luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”) a quelle del Risorto ai discepoli di Emmaus (24,25-27: “«Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”). Paolo porta fino in fondo, con appassionata generosità, la sua testimonianza davanti al re, ma la reazione di Agrippa è beffarda e impaurita allo stesso tempo: “Sei pazzo Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!”. Paolo non è rimasto nella posizione di chi si deve difendere: ha cambiato le carte in tavola, ha trasformato la sua difesa in annuncio, anzi in un appello alla conversione, in un’umile e tenace testimonianza della volontà di Dio, in base alla quale tutti saremo giudicati. Paola sa bene che le sue parole non sono il frutto di una suggestione religiosa, ma di una consapevolezza chiara e sofferta, dalla quale scaturiscono ora “parole vere e sagge”, che non solo fanno riferimento ad accadimenti incontestabili, ma sono anche in piena continuità con le Scritture profetiche, alle quali lo stesso Agrippa crede. Ma la risposta del re, ancora una volta, è un misto di esitazione e tentativo di minimizzare e ridicolizzare: “Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!”. Ma Paolo non sta giocando: sa bene che la sua vita è davvero consegnata nelle mani di Gesù perché tutti possano ricevere luce e salvezza, anche Agrippa e gli altri che lo stanno ascoltando, sul serio. Paolo non ha altro da dare agli altri e per cui supplicare il Signore, se non la partecipazione alla sua stessa condizione di uomo raggiunto e trasformato dal dono gratuito dell’amore di Dio: e cioè una vita illuminata, riempita di gioia, di verità, di bene e di bellezza, a motivo della comunione personale con Gesù morto, risorto e ora vivo, presente e operante. Il re si alza e la seduta finisce… e ci si incammina, conversando, con un senso di straniamento e di occasione mancata: Paolo ha testimoniato una salvezza che consiste, per tutti, nell’arrendersi all’amore e alla luce di Dio che si sono manifestati in Gesù, e quindi si esprime in quella scelta che è la conversione, la decisione di cambiare vita. Ora invece il re Agrippa e il governatore Festo se ne vanno malinconicamente, ammettendo l’innocenza di Paolo ma con il senso di impotenza di chi si nasconde dietro il fatalismo delle procedure, rinunciando quindi a impegnarsi davvero per la giustizia, ma soprattutto a rispondere personalmente alla chiamata di Dio alla conversione.

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