Atti 27,39-44
Quando si fece giorno, non riuscivano a riconoscere la terra; notarono però un’insenatura con una spiaggia e decisero, se possibile, di spingervi la nave.
Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare. Al tempo stesso allentarono le corde dei timoni, spiegarono la vela maestra e, spinti dal vento, si mossero verso la spiaggia. Ma incapparono in una secca e la nave si incagliò: mentre la prua, arenata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde. I soldati presero la decisione di uccidere i prigionieri, per evitare che qualcuno fuggisse a nuoto; ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo proposito. Diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiungessero terra; poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra.
Venuto finalmente giorno, gli animi rifocillati dal pasto notturno sono in grado di scorgere la terra e in un’insenatura una possibilità di attracco. È il momento di giocarsi tutto: le ancore vengono sciolte e lasciate cadere in mare, i timoni liberati e la vela maestra aperta al vento che li spinge verso riva. Ma i fondali bassi non permettono alla nave di raggiungere la spiaggia: la prua s’incaglia e la poppa comincia ad andare in pezzi sotto la violenza delle onde. La situazione è drammatica: dopo la lunga e angosciosa navigazione in balia della tempesta, ora, a poche centinaia di metri dalla salvezza, tutto può andare perduto. Quella nave che, alleggerita e assicurata con funi, li ha portati fin qui tutti salvi, ora può diventare la loro tomba: è necessario abbandonare la nave. Non è forse così? La società e la cultura umana sono come navi che ci permettono di attraversare il viaggio pericoloso della vita, dandoci gli strumenti per non affogare. Ma arriva il momento, non prima e non dopo, nel quale quel sistema di “navigazione” è troppo ingombrante per toccare terra: c’è bisogno di liberarsene per non rimanerne schiacciati. Qui i soldati, presi dal panico, decidono di uccidere i prigionieri, che in questa confusione potrebbero fuggire: la fuga degli schiavi costava la vita ai loro carcerieri… è la soluzione “vecchia”, che sacrifica l’altro per salvarsi. In ogni tempesta c’è qualcuno “sacrificabile” perché più fragile o invisibile o identificato come capro espiatorio… anziani, carcerati, bambini, migranti… non è stato e non è così anche in questa tempesta della pandemia? Ma qui il Signore, come aveva detto, vuole che tutti siano salvati! E, curiosamente, non è un’intervento di Paolo, che qui è passivo, ma del centurione a fermare il proposito di morte, a sbloccare la situazione e a dare un orizzonte di speranza per tutti. E questo non avviene per una sua “teorica” volontà di salvare tutti, ma per salvare Paolo. Insomma Paolo è il motivo oggettivo per la salvezza di tutti, ma semplicemente perché il centurione se lo prende a cuore e mette la vita di Paolo sopra la sua stessa vita, e qui possiamo fantasticare sui motivi… ma certo è per questo atto di suprema umanità che poi tutti sono salvati. Quello che ferma l’ideologia disperata di colpevolizzazione e di morte non sarà la retorica buonista di un vago rispetto universale che non sa sporcarsi le mani e rischiare, ma l’incontro con l’altro per il quale si è disposti a dare se stessi. Questo innesca salvezza per tutti. Ora il centurione è così pienamente “umano” da assumersi il comando dello sbarco e prendersi cura di tutti, ciascuno secondo le proprie possibilità e risorse. La grande nave fatta in pezzi, diventa così, proprio mentre si disfa, strumento di salvezza per quanti non sono in grado di nuotare. “E così tutti poterono mettersi in salvo a terra”. È questa salvezza di tutti, non la preservazione delle proprie navi-istituzioni, la stella polare di ogni navigazione nella tempesta.