Allora vennero i farisei e incominciarono a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. Ma egli, traendo un profondo sospiro, disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione”. E lasciatili, risalì sulla barca e si avviò all’altra sponda.
Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!”. E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”. Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?”. Gli dissero: “Dodici”. “E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?”. Gli dissero: “Sette”. E disse loro: “Non capite ancora?”.
Il rientro in patria è brusco, quasi violento: dopo l’entusiastica accoglienza in terra straniera conclusa con il festoso banchetto della compassione per le genti, è ancora più oltraggiosa la pretesa dei farisei di “un segno dal cielo”, cioè di una dimostrazione che la potenza di Gesù viene da Dio. “Per metterlo alla prova”, come aveva fatto Satana nel deserto. Ed ecco un nuovo profondo sospiro di Gesù, come davanti al sordomuto (7,34): ma c’è una chiusura insuperabile, che nessun segno può incrinare. Anzi, qui i segni diventano un diversivo rispetto alla posta in gioco, un velo che si interpone tra il cuore dell’uomo e la semplice, spoglia offerta di salvezza di Dio in Gesù, salvezza che è liberazione, guarigione, apertura, nutrimento. Il segno è che non c’è nessun segno, nessuna mediazione, perché solo l’apertura di fede in lui può consentire di attingere alla potenza del suo amore, alle sue viscere di misericordia. Altrimenti si rimane lì, sulla sponda, aspettando che qualcosa accada, mentre lui si imbraca, ci lascia alle nostre pretese e continua il suo viaggio. E qui, sulla barca, di nuovo emerge l’incomprensione, questa volta da parte dei discepoli (come in 6,52!). La dimenticanza dei pani diventa lo spazio per l’infiltrarsi di un lievito di corruzione: la chiusura impaurita dei farisei e la violenta mollezza di Erode. Gli uni e l’altro ugualmente non colgono la segreta identità di Gesù, colta invece dall’umile e incrollabile donna sirofenicia, che apre la mensa alle genti (7,24-30). I discepoli non si avvedono che lì, con loro, l’unico pane è Gesù stesso, e che “finché è con loro non possono digiunare” (2,18!). Così è ricapitolata tutta questa parte, che era cominciata con gli interrogativi di Erode che sente parlare di Gesù (6,14-16) e il feedback sul tragico banchetto della uccisione di Giovanni, e che era proseguita con i gesti di liberazione, guarigione e moltiplicazione dei pani, ma anche con l’ostilità dei farisei sulle norme di purificazione e la richiesta di un segno dal cielo… insomma i discepoli, nel bel mezzo dell’ultima traversata che li porterà finalmente a Betsaida dove fin dall’inizio di questa sezione erano diretti (6,45), sono ora invitati da Gesù a “fare memoria”. Con sette domande pressanti, piene di pathos, li pungola perché raccolgano davvero il senso di quel che hanno vissuto con lui. Altrimenti, contaminati dal “lievito dei farisei e di Erode” che sono rimasti chiusi all’accoglienza di lui, i discepoli, proprio loro, cui “è stato dato il mistero del regno di Dio”, finiscono per diventare esattamente come “quelli di fuori”(cfr. 4,11-13!): “Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?”. La dimenticanza dei pani è segno di una incomprensione più profonda, del rischio di vivere cose bellissime, nutrienti, illuminanti… ma poi di non “raccogliere”, di non rendere quelle esperienze con Gesù un patrimonio, un tesoro personale e trasformante, radicato in profondità. Per questo il comando è sempre quello di “ricordare” (cfr. Es 13,3; Dt 7,18), di “non dimenticare” (cfr. Dt 4,9.23; 6,12; 8,11.14.19; 9,7 etc.): “non vi ricordate?”. E così Gesù fa il ripasso delle due esperienze di moltiplicazione, e in particolare di quel gesto finale di “raccogliere” i pezzi avanzati. Li obbliga a tornare all’esperienza “fisica” di quel prendere tra le mani i pezzi e riempire le dodici ceste, e poi le sette sporte… La traversata prepara, con questa “lavata di capo” dei discepoli da parte di Gesù che drammatizza la loro incomprensione, ad un riconoscimento di lui che è intelligenza spirituale del percorso fatto fin qui. Senza memoria non ci può essere conoscenza: le orecchie non odono e gli occhi non vedono. Approdare a Betsaida significherà aver attraversato e custodito nel cuore l’esperienza fatta con Gesù, esperienza che solamente può aprirsi all’intelligenza di Lui.