Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate».
Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Eccoci giunti al monte degli Ulivi, al podere chiamato Getsemani. Possiamo immaginare un uliveto con un torchio; Giovanni lo descrive come un giardino, subito di là dal torrente Cedron, quindi ai piedi del monte, vicino alla città, un luogo frequentato spesso da Gesù con i suoi discepoli e per questo ben conosciuto da Giuda (cfr. Gv 18,1). Questo luogo diventa lo scenario dell’atto supremo del sì di Gesù al Padre, in una sorta di itinerario iniziatico fin dentro il mistero della preghiera del Figlio. Per prima cosa Gesù chiede ai suoi discepoli di sedersi, in atteggiamento di attenzione. Non per pregare, ma per assistere alla sua preghiera. Da qui c’è, per qualcuno, la chiamata ad inoltrarsi in qualcosa di più profondo. I tre primi discepoli chiamati, testimoni della vittoria di Gesù sulla morte (la risurrezione della figlia del capo della sinagoga in 5,37-43) e della sua gloria filiale sul monte (9,1-10), essi che con Andrea hanno ricevuto le parole di Gesù sulla fine (cap. 13), sono ora da lui ammessi al momento più drammatico e vibrante della sua vita: “cominciò a sentire paura e angoscia”, una paura che mai fino ad ora aveva avuto Gesù come soggetto e che egli subito verbalizza in modo semplice e disarmato ai suoi discepoli con le parole del salmo “la mia anima è triste fino alla morte” (Sal 42-43). La richiesta fatta ai discepoli, cui ha affidato la sua estrema debolezza, è quella di vegliare, a distanza, mentre egli affronta tutta intera e attraversa la paura nella preghiera. Gesù si prostra a terra, in uno dei gesti di preghiera più intensi e così poco praticati nella nostra cultura religiosa: egli sta davanti al Padre senza alcuna pretesa, umile servo, steso a terra in attesa di salvezza. La sua preghiera è diretta, trasparente, affidata. Il suo modo di rivolgersi a Dio è di una intimità sconvolgente: “Abbà!”, che potremmo tradurre con “papà”, con l’espressione più familiare e affettiva. Qui sta il segreto ineffabile della relazione di Gesù con il Padre. Egli sa bene che tutto è possibile al Padre suo, l’ha sperimentato in tutta la sua vita. La richiesta è semplice, quella di ogni uomo povero sulla terra: “allontana da me questo calice!”. Ma subito tutto si orienta in un pieno affidamento, in una fiducia sconfinata: “Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. Qui è Gesù a rinnegare se stesso, a fare spazio fino in fondo alla misteriosa volontà del Padre, a sacrificare il suo stesso istinto di sopravvivenza, non per eroismo, ma per amore e per fiducia filiale. Gesù non teme di mettere a parte i suoi discepoli della sua debolezza, della sua paura, della sua angoscia, perché vive tutto nell’abbandono confidente di Figlio. Il suo andare avanti e indietro a risvegliare i suoi discepoli perché ne siano testimoni ci fa vedere che tanto la gloria quanto la debolezza di Gesù è troppo grande, troppo scandalosa perché possano reggerla. Forse erano pronti a dare al vita per un eroe, ma la rivelazione del suo abbassamento è qualcosa di incompatibile con la loro idea di salvatore. Ma l’invito, il comando è pressante, ripetuto: vegliate! Il cristiano è un vigilante (cfr. 13,33-37!), tutto proteso all’arrivo del Signore. E questa vigilanza è lo spazio della preghiera. Solo così non si rimane intrappolati nello spazio soffocante della nostra umanità lasciata a se stessa (“la carne è debole”), ma ci si apre al soffio e alla potenza dello Spirito in noi (“lo Spirito è pronto”). Del resto è quello che ha mostrato Gesù stesso: non vergognandosi della sua debolezza, ma affidandola interamente al Padre. È gridando “Abbà!”, mossi dallo Spirito, che anche noi siamo strappati al dominio della paura, e siamo resi figli nel Figlio (Rm 8,15-17!). Per la terza volta Gesù va dai suoi: il tempo della veglia è finito, non ha più senso vigilare, perché è giunta l’ora, non quella tanto attesa della venuta in gloria del Figlio dell’uomo, bensì del suo essere consegnato! Ecco il paradosso: colui che aveva dato inizio alla sua predicazione annunciando “il regno di Dio è vicino” ora deve dire “colui che mi tradisce è vicino”.